I BARONI di Nicola Gardini

Posted on luglio 19, 2010 di

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Una mia cara amica, che ha la fortuna di non avere nulla a che fare con l’università, mi ha regalato un libro estremamente interessante, che io ho divorato in meno di 24 ore. Si tratta, come da titolo, de ” I BARONI”, di Nicola Gardini, ovvero “Come è perchè sono fuggito dall’università italiana”. Il discorso ci riporta al post di Grazia di qualche tempo fa, sul ruolo dei baroni e dei maestri nella nostra università.

Il libro è di scorrevole lettura, molto ben scritto, ed oltre ad analizzare lucidamente ed  ironicamente i baroni incontrati dal protagonista lungo il suo cammino, ed attaverso questi ovviamente dare un quadro molto più generale dello stato dell’università italiana, è anche un piacevolissimo romanzo autobiografico, in cui credo molti dei lettori di questo blog potranno riconoscersi.

Infatti, anche se l’autore viene da un’area diversa dalla nostra, la letteratura comparata, l’approccio umanistico, come direbbe Toraldo di Francia, rimane per me il più completo e realmente scientifico, in qualsiasi contesto. Non a caso, secondo me, l’autore afferma in uno dei passi: ” Il Poeta è l’opposto del Barone. Il Barone vuole a tutti i costi aver ragione. Il Poeta è tutto tranne ricerca di consenso. Il Poeta, come diceva Cametti, è sempre contro il suo tempo. Per questo non ha un ruolo nella società. Il Barone, invece, vive in funzione esclusiva della società; addirittura pretende di crearne una… Il Barone, non ha un’immagine di sé, ma solo l’immagine che ritiene che altri debbano avere di lui”.

Credo ancora che la vera scienza, la vera ricerca, dovrebbero essere quanto di più simile alla poesia, fermi restando tutti gli aspetti pratici e professionali che la ricerca comporta. Il binomio di Newton è bello come la Venere di Milo, scriveva Pessoa, solo che pochi se ne accorgono.

Sicuramente non se ne sono accorti i baroni di Gardini, nè quelli che abbiamo avuto l’occasione di incontrare noi fisici per il mondo. In loro “la memoria storica non si trasforma in coscienza, cioè in uno stato permanente del pensiero: ma sprofonda e riaffiora secondo la necessità, o meglio, l’utilità […]. Un barone […] per un prodigio psicologico le cui radici non saranno mai portate per intero alla luce, si sente sempre in credito. Le cose gli sono dovute. Lui non deve nulla. Lui concede, accorda, dona, e con i suoi simili scambia. E se non dà, non è perchè non possa […] ma perchè tu non sei degno delle sue concessioni. Per cui vivi sempre nel dubbio di aver commesso qualche fallo, di averlo urtato, di non essere stato servo sufficientemente solerte. E allora quanto meno ricevi e sospetti che riceverai, tanto più ti abbassi e rinunci a te stesso. Molti si sono legati al barone con simili patti. E non hanno ottenuto l’eterna giovinezza; hanno perso l’unica che la vita gli avrà mai donato”.

Questa conclusione un po’ agghiacciante ma non per questo meno vera mi ha richiamato alla mente i racconti di tanti colleghi, amici, ricercatori validi, che spesso, anche senza rendersene conto, sono entrati in certe terribili dinamiche, che niente hanno a che fare con il tanto declamato quanto ovviamente del tutto trascurato merito.

Il percorso del protagonista è segnato fin dalle prime pagine, ce lo fa intuire, anche se è molto bravo a tenerci in sospeso fino alla fine. Finale appunto preannunciato, ovvio quanto tragico per l’università e quindi per la società italiana. Io ho rivisto pezzi della mia storia, personale ma anche professionale, specie per il confronto con l’estero, visto che io non ho mai avuto l’occasione (fortuna? forza? fate voi..) di lavorare direttamente per un’università italiana. E ci ho rivisto la storia di molti di noi.

Non so cosa ci aspetta, le proteste contro la riforma sono sotto gli occhi di tutti questi giorni, anche se a volte i contenuti tendono a sfuggirmi. Non so perchè, ma la lettura di questo libro mi ha fatto venir voglia di lavorare bene, come se mi avesse aiutato a sentire più viva l’etica di questo nostro lavoro. Se riuscirò (se riusciremo) a farlo in Italia, questo non lo so. Mi sento molto pessimista a riguardo, un pessimismo che mi fa male, perchè credo che un piccolo contributo potrei darlo, soprattutto per la mia conoscenza di realtà diverse. Un contributo che potremmo dare in tanti, e invece siamo sempre più spinti ad andar via. Accingendomi a scrivere questo post, ho letto rapidamente dei passi dal blog dello stesso Gardini. Non sembra sia intenzionato a tornare, e certo non posso dargli torto, visto quello che ha passato…

Gardini chiude il libro, oltre che con una critica finale ai Baroni – ” i Baroni sono colpevoli di fronte a tutti gli italiani […]. I Baroni sono colpevoli di un crimine tremendo: rubano il futuro.” – anche con una critica molto lucida verso quelli che assecondano i baroni, le cosidette “vittime”.  Queste infatti presto “non solo si identificano con loro, e cominciano da subito a pensare come loro, ma sono nella sostanza, perfettamente uguali a loro, poiché, anche quando mal sopportano il predominio degli altri, non lo vorrebbero affatto abolito ma lo vorrebbero solo per sé, immediatamente”.

Il carattere italico, il cambiare perchè tutto resti uguale, la salvaguardia della propria “pagnotta”, del proprio orticello, la nostra capacità di fare rivoluzioni solo con il fine ultimo di sostituirci al caudillo di turno per il nostro personale tornaconto stanno tutte in queste righe.

Credo sia stato Polenz (cito a memoria una frase letta secoli fa, perdonate le imprecisioni) a dire “che non c’è migliore educazione alla società che la consuetudine con lo spirito ellenico”.  Lo spirito ellenico era fatto di democrazia, di agorà, certo anche di ostracismo quando serviva, e di schiavi, ma era fatto di Stato, di una politica che era la diretta estensione dell’etica individuale sul piano pubblico. E di maestri, certo non di baroni. E’ tragico che la nazione che più dovrebbe sentire questa eredità, forse più della Grecia stessa, per quello che l’umanesimo ha reinterpretato di questa tradizione, sia quella che più si sia allontanata da questa eredità, lasciandola a nazioni molto più giovani, molto più ingenue, molto più culturalmente povere forse, ma senza dubbio molto più etiche, come  ad esempio l’amata/odiata Danimarca che mi ha ospitato per 4 anni.

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