Prendo spunto da un recente articolo di Giulio Palermo (“La contraddizione”, N. 124, 2008, pp. 68-79) in cui si tratta di ricercatori precari, cooptazione e potere baronale, per parlare di qualcosa che mi sta molto a cuore e coinvolge molti dei miei colleghi ( e amici).
Questo nuovo articolo e’ la continuazione di un precedente intervento sul manifesto del 12 dicembre 2007 (che puo’ essere trovato sul sito dell’autore http://www.eco.unibs.it/~palermo/ alla voce “Ricercatori precari e baroni”, insieme ad una versione non edulcorata dello stesso articolo).
Nell’ articolo i ricercatori precari, che fanno la fila un assegno dopo l’altro fino al “loro” concorso, vengono descritti come componente fondamentale del pessimo stato dell’universita’ italiana. Dunque, pur pagando in prima persona le conseguenze di un sistema marcio, i precari, definiti “aspiranti ricercatori in corso di cooptazione”, hanno un ruolo considerevole nella disgregazione dell’universita’ in Italia,
Sono completamente d’accordo con lui e trovo l’articolo giusto e ragionevole, quasi ovvio. Ovviamente invece i ricercatori precari hanno dato addosso a Giulio Palermo, senza pero’ fornire risposte ai punti che lui solleva, respingendo le accuse al mittente e citando i propri casi personali.
Scommetto che siamo tutti d’accordo nel desiderare un’universita’ ed una ricerca equa e meritocratica, e nel voler scardinare il sistema feudale vassalli-valvassori-valvassini.
Vi invito a leggere l’articolo del manifesto e la sua versione politically scorrect su
http://www.eco.unibs.it/~palermo/, e sollecito una vostra opinione.
PS Se desiderate posso inviarvi una copia dell’articolo apparso su “La Contraddizione”, dato che non sono sicuro che sia reperibile on-line
Matteo
Maria Grazia
settembre 29, 2008
L’articolo di Giulio Palermo è giustamente scandaloso, perchè chi osa dire la verità fa sempre scandalo. Mi piace sin dalla precisazione che “ricercatori precari” è una dicitura scorretta. Solo chi ha un contratto da ricercatore a tempo determinato, semmai, potrebbe dirsi “ricercatore precario” e comunque, sarebbe più corretto dire “ricercatore a contratto”.
Per il resto, mi trovo purtroppo a condividere la descrizione di un mondo della ricerca in cui i rapporti fra docenti e discenti “in attesa di far carriera” sono frequentemente di tipo feudale. Con questo, non me la sento nè di generalizzare, nè di mettere i baroni al banco dell’accusa e i loro sottoposti fra le vittime. Se infatti a chi è agli ultimi gradini della piramide può venir chiesto di adempiere a doveri in vece del suo professore (per esempio, per quel che riguarda la didattica), molto spesso questi favori sono ricambiati con la generosa offerta di inserire il proprio nome in un articolo a cui non si ha lavorato affatto. A questo punto, è colpevole il professore a delegare i propri compiti, o il discente, ad essere disponibile, pur di ricevere meriti assolutamente “gratuiti”?! Paradossalmente io credo che la colpa maggiore sia dei discenti, di coloro che accettano qualsiasi tipo di proposta pur di entrare nel “sistema università” e ovviamente son ben contenti di ricevere immeritati vantaggi! Se non ci fosse tale disponibilità a scendere al compromesso, necessariamente le richieste del baronato cambierebbero.
Ovviamente tutto questo va inteso con opportuni distinguo: non tutti i rapporti docente-discente sono riconducibili a quelli di tipo precari-baroni, così come se un postdoc aiuta il proprio docente un paio di volte all’anno per la didattica o per gli esami, non si può parlare di sudditanza, ma di reciproco aiuto.
Ciao!
raffrag
ottobre 2, 2008
Vi pare che si possa pensare ad incentivare la sopravvivenza di questa Università e del mondo della ricerca senza seriamente ragionare su che cosa essi siano? Non c’è stato governo, né area di consensi, da quarant’anni a questa parte, che abbia validamente perseguito le regole anglosassoni delle quali tanto spudoratamente ad ogni piè sospinto ci si imbelletta. Da questo mondo sono fuggito appena ho potuto, ma ho come la sensazione di avere avuto la strada spianata: Giorgio se ne vò ì’ e ‘o vescuvo ‘o vò mannà! Cioé, al nemico che fugge ponti d’oro. Oggi a Roma c’è un concentramento di precari, che manifestano contro i provvedimenti del governo. Tra loro, ce ne saranno molti che gravitano nella zona grigia dell’Università. Tuttavia, temo di sapere già che, se un compromesso si troverà, sarà perché tra loro ci sono i loro principali nemici, ovvero, tra loro ci sono figli di magnanimi lombi che devono avere la strada spianata (da leggere in maniera estensiva). Le tanto deprecate sanatorie del passato rispondevano a questa logica. Io vivo ormai in un mondo ribaltato: non sono un precario, perché sono fuori dall’Università, eppure mi trovo ad essere, presumo d’esserlo, persona che gode di credito in una piccolo consesso di precari diseredati. Ecco, proviamo a proporre questa Università ribaltata, dove i maestri lasciassero ogni spazio ai giovani, e questi fossero lasciati liberi di organizzarsi e di programmare, ai signori illuminati che promuovono raccolte di firme contro le decisioni del governo, e vediamo cosa succede.
attaccalite
novembre 2, 2008
Cara Matteo io sono d’accordo sulle conclusioni di questo articolo, però il problema principale secondo me sta da un’altra parte.
Il fatto che ci siano concorsi fatti ad personam e persone che fanno la fila a me va anche bene, ma a condizione che siano selezionate sul merito.
Il problema e’ che un professore spesso non ha nessuna motivazione profonda per assumere qualcuno con un ottimo CV invece di qualcuno con un CV mediocre.
Ora se poi per assurmerlo deve tenerselo lì qualche anno a lavorare con lui, perchè non ha la possibilità di dargli un posto subito va bene.
Ma il fatto e’ che la selezione di queste persone e’ completamente arbitraria senza tener conto di criteri di merito, e magari si scelgono i più servili, chi sa.
Io penso che questo sistema “feudale” potrebbe almeno essere un po’ scardinato se si introducessero dei criteri minimi per ottenere una posizione da ricercatore, come ad esempio 1 o 2 anni di esperienza all’estero (come adesso hanno fatto in Francia più o meno), H-index maggiore di un tot etc.
So che in parte questi criteri si potrebbero aggirare ma almeno garantirebbero una qualità minima di chi entra nel mondo della ricerca.
Maria Grazia
novembre 4, 2008
Ciao Claudio, io credo che Matteo intendesse per “fare la fila” un processo in cui si procede per anzianità, più che per merito.
Per quanto riguarda i criteri “basici” per avere un’idoneità da ricercatore, questi sono tutt’altro che semplici da identificare. 1-2 anni all’estero sono un segno così importante? Ma sappiamo che in Italia con i Marie Curie si “gioca di scambio rimanendo in casa” molto spesso, no?! L’h-index è indicativo, ma se si ha avuto la fortuna di entrare in un gruppo “giusto”, si pubblica tanto e facilmente, mentre se fai un lavoro in autonomia i risultati spesso tardano ad arrivare…
Insomma io credo che il meccanismo della chiamata alla fine potrebbe ben funzionare, se poi il procedere della carriera e anche la conferma a ricercatore, fossero davvero un processo meritocratico. Un docente dovrebbe avere tutto l’interesse a far lavorare con sè gente “brava” e penso sinceramente che questo molto spesso accada (soprattutto nelle facoltà scientifiche…), altrimenti la nostra università verserebbe in condizioni assai peggiori di quelle che abbiamo!
Adotterei comunque un criterio discriminatorio per non essere assunti: aver fatto tesi di laurea, dottorato e postdoc sempre in uno stesso gruppo…questa è una cosa assurda che accade solo nel nostro Paese!!!
CIao!
MatteoF
novembre 4, 2008
Sottoscrivo il criterio suggerito da MGO, ma continuo a stressare l’importanza di uno o due (meglio due, dato che se si lavora in autonomia i risultati tardano ad arrivare) anni all’estero. Il post-doc all’estero e’ davvero fondamentale, quasi discriminante.
claudio
novembre 7, 2008
Cari Maria Grazia e Matteo
io sono d’accordo con voi che l’h-index non e’ sicuramente la maniera migliore per valutare una persona, ma non ne conoscete una migliore?
E poi in questo mondo quello che conta sono le pubblicazioni, quindi chi ne fa di più e di qualità (solitamente misurata in citazioni e rilevanza dei giornali come Science, Nature, PNAS, Cell, PRL etc..) è considerato più bravo. Per questo l’h-index mi pare un buon criterio perchè misura sia il numero che le citazioni, certo poi puo essere migliorato, ma almeno per una prima scremature mi pare ottimo.
Inoltre adesso lo stasso usando anche per valutare gruppi che non è male.
Comunque io alla fine rimango dell’idea che solo introducendo criteri di merito oggettivi si può combattere il sistema di baroni etc..
E in altri posti questo funziona, prova ad applicare per un posto a Cambridge, Oxford o molte università in US senza avere Nature e Science, ma quando ti prendono? E’ così che mantengono un alto livello in quelle università.
Certo questo modo di fare ha anche i suoi lati negativi, alcune ricerche di qualità fatte su argomenti non “alla moda” non finiranno mai su Nature e Science e quindi chi le fà ne verrà certamente penalizzato.
Ma penso sia un prezzo che si possa pagare in cambio di una distribuzioni dei posti in maniera più meritocratica.
Maria Grazia
novembre 10, 2008
Claudio, forse hai ragione. Peccato che mi vengano alla mente diverse persone non certo geniali che hanno al loro attivo pubblicazioni su questi giornali, pur non avendo contribuito per nulla all’ideazione del lavoro, ma avendo fatto bassa manovalanza. Diciamo che spero che siano l’eccezione che conferma la regola…
Ciao