Si è discusso, sommessamente, nella scorsa settimana, di un appello fatto dai ricercatori a tempo determinato (RTD) al Presidente della Repubblica Napolitano, il cui testo integrale trovate qui. Pochi sanno che la riforma Gelmini ha cancellato la figura del ricercatore universitario con contratto a tempo indeterminato (non assumendo dunque più persone che ricoprano quel ruolo), introducendo la figura del ricercatore a tempo determinato di tipo A e B (cosa significa, è scritto qui). Come è facile immaginare, si arriva a questa tipologia di contratto solo dopo laurea, dottorato di ricerca e vari anni di esperienza postdoc (il che può significare un’età anagrafica fra i 34 e i 42 anni, in media). Il fatto divertente è che la tipologia di contratti di ricercatore a tempo determinato che è stata assegnata prevalentemente sinora è quella di tipo A. Per capirci, quella che non impegna l’Ente ad assumerti, anche se sei stato molto bravo. Questa cosa ovviamente ha delle ricadute, sul piano personale-umano di coloro che prendono questo contratto, come sottolinea la lettera, ma secondo me anche dal punto di vista di rendita sul piano lavorativo. Se mi sto costruendo le basi per un futuro, lavorerò con più entusiasmo, mi affaccerò su più finestre, getterò l’amo in ambiti promettenti, anche se intravedo un percorso lungo prima di poter arrivare a risultati importanti. Ma questo è solo un aspetto di questa tipologia di contratti. Sotto tantissimi altri punti di vista, questo è un contratto molto migliore rispetto a tutti quelli inerenti il tempo determinato all’università (borse di ricerca, assegni di ricerca, cococo e cocopro…). Con tale contratto infatti si gode di diritti praticamente pari a tutti gli altri lavoratori per quanto riguarda malattia, maternità, congedi. Si ha persino diritto a partecipare ai Consigli di Dipartimento. Addirittura si percepisce la tredicesima. Lo stipendio è un po’ più consistente rispetto a quelli mediamente percepiti tramite assegni di ricerca. Certo rimane il problema del futuro, ma questo è un discorso a latere. Vorrei piuttosto riflettere sul fatto che sarebbe bello se ci fosse meno ipocrisia nell’assumere giovani con un alto livello di formazione, nel loro periodo di maggiore creatività scientifica (secondo gli studi più recenti) a tempo determinato. Ci dovrebbe essere la consapevolezza e l’onestà di dire che si stanno prendendo a lavorare a tempo determinato probabilmente le risorse migliori, più produttive, più disponibili a grossi carichi di lavoro, più entusiaste e più vicine e quindi probabilmente sensibili alla formazione degli studenti. Poi, fra 3 o 5 anni, l’ente è libero di mandarli a casa. Saranno un po’ invecchiati, un po’ demotivati, un po’ meno brillanti di prima, magari. In casi simili a questi, che si fa?! Si fa come con tutti i professionisti che lavorano al meglio in un certo periodo della loro età: i calciatori, gli atleti, le modelle. Si dovrebbe pagare davvero bene questi professionisti a tempo determinato, perché fra poco non li considererete più al top, e li sostituirete con altri. Vi sembra troppo azzardato, questo paragone?!
Intanto, gli invecchiati RTD staranno probabilmente pensando di andare a fare qualcosa tipo “gli allenatori”, magari in un altro continente.
icalamari
febbraio 27, 2013
Questo vale per ogni figura professionale impiegata a tempo determinato: La strategia, che chiamo “dello zolfanello”, mira a sfruttare a fondo i più talentuosi per pochissimo tempo. Ciò impedisce che maturino sufficiente esperienza e titolo per avanzare maggiori pretese contrattuali, brucia l’entusiasmo e la possibilità che l’interazione con un sistema stabile di professionisti al lavoro sugli stessi temi produca vera innovazione e, non ultimo, porta una quantità in aumento esponenziale di esseri umani a domandarsi quale senso abbia vivere, in questo come in qualsiasi altro paese.
Nessuno mi smuove dall’idea che dare chance ai giovani sia la priorità assoluta.
Maria Grazia Ortore
febbraio 28, 2013
Ciao calamaro. Si è giovani a 35, 40 anni? Io dico di no, assolutamente. Non si tratta solo di dare una chance, in questo caso, ma di non creare gap incredibili fra persone che hanno magari solo 10 anni di differenza anagrafica, ma hanno davanti a sè garanzie lavorative assai diverse. Non penso che la strategia “dello zolfanello” sia di successo, nemmeno per chi “sfrutta” per poco tempo i talentuosi. Anche il talento più brillante ha bisogno di maturare e di tempi per esprimersi al meglio…
attaccalite
febbraio 28, 2013
Grazie Maria Grazia per questo bel post. Riguardo alle ricadute sul piano lavorativo, uno studio di un paio di anni fa su PNAS a messo in luce gli questi effetti sulla produzione scientifica in fisica vedi:
Persistence and uncertainty in the academic career
PNAS vol. 109 no. 14, pg 5213 (2011)
http://www.pnas.org/content/109/14/5213.short?rss=1#corresp-1
melpomene
marzo 4, 2013
E’ vero la situazione è drammatica. Sono continuamente in tensione per la possibilità di contianuare ad appassionarmi e lo sforzo di barcamenarmi tra decine di attività. Allo stesso tempo DIO ci ha regalato una natura meravigliosa da esplorare. La realtà che ci circonda, quella composta da noi e quella dentro di noi. Se la società non è ammirata da tutto ciò sta a noi anche comunicare l’ ESTASI di Kant, se ci appassiona farlo, a prescindere dalla nostra condizione personale.
Massimo Pinto
marzo 5, 2013
L’introduzione in Italia della figura del ricercatore a tempo determinato è stata una mossa di dubbio acume. Un cambiamento era necessario, ma se davvero la riforma Gelmini si ispirò al modello accademico anglosassone, la prospettiva si deve essere perduta in corso d’opera.
In paesi dove il mercato del lavoro è florido, è condizione normale “sopportare” fasi della carriera scientifica in cui non ci sia la promessa del posto di lavoro permanente. Queste fasi possono avere durata diversa: dalla formazione dei post-dottorati, in cui non si presuppone alcuna assunzione definitiva (io stesso non avevo mai nemmeno pensato di essere un precario, prima di tornare in Italia), fino ai casi delle Università più gettonate, in cui esistono dei percorsi di carriera senza alcuna promessa di assunzione nemmeno quando avrai 60 anni e sarai un professore ordinario, con dimostrata capacità di attirare fondi extramurali e di assicurarne anche il rinnovo. Se non vali più, ti caccian via. C’è chi le accetta queste condizioni perché, comunque vada, esistono altre possibilità. E’ a questo tipo di mercato del lavoro quello a cui, probabilmente, Mario Monti si riferì quando disse “che noia sarebbe un posto fisso”. Se avesse meglio argomentato, sarebbe stato preso diversamente.
Ma qui siamo in Italia, e la disoccupazione tra i giovani è al 40%. La via d’uscita è un investimento significativo nel recupero della ricerca scientifica presso le università e gli enti pubblici. Ma…questo dovrebbe avvenire senza nemmeno troppo scopiazzare il modello delle carriere all’estero, perché il modello tenure track, tanto sbandierato, sta scricchiolando anche lì e non è più sostenibile. Invece che copiare (malissimo) un sistema che sta lentamente fallendo, bisognerebbe avvalersi dell’esperienza dei nostri colleghi stranieri per progettare soluzioni ancora diverse e che superino già in fase progettuale quello che gli altri stanno vivendo.